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DISTURBI D’ANSIA

L’ansia è un’emozione che, in piccola quantità, contribuisce ad attivare ed allertare l’individuo in situazioni di pericolo e/o nei casi in cui occorra un aumento di attenzione ed attivazione neuro-fisiologica, ad esempio prima di un esame o in caso di pericolo.

L’ansia quindi è un’emozione comune a tutti e funzionale al nostro benessere in quanto prepara ed attiva l’organismo in quelle situazioni in cui è richiesta un’attivazione psico-fisica. In questi casi tale reazione non è da considerarsi anomala e disfunzionale, ma bensì un fenomeno psicofisico normale che “prepara” ed “attiva” la persona davanti ad una certa situazione che richiede specifiche reattività sia mentali che fisiche.

 

Diviene invece un disturbo emotivo quando lo stato di allarme e paura è “esagerato” rispetto ai reali pericoli o se i pericoli non ci sono affatto.

In tal modo in certi casi la reazione emotiva di ansia non risulta adattiva e, anzi, aumentando di intensità e frequenza può appunto generare uno o più Disturbi d’Ansia, nei quali la persona non riesce più a capire e gestire i propri livelli emotivi e, di conseguenza, ad affrontare eventi anche semplici e a controllare i molteplici fattori di stress che la vita ci mette innanzi.

 

I Disturbi d’Ansia infatti sono caratterizzati ed accomunati dalla presenza di intensa e frequente ansia, principale loro sintomo psicologico, che determina significativo disagio o menomazione nel normale funzionamento personale, sociale, lavorativo, scolastico, familiare, affettivo, etc.

La risposta irrealistica e sproporzionata diviene allora un vero e proprio disturbo psichico con un quadro sintomatologico complesso ed articolato in sintomi sia mentali, che fisiologici.

In specifico i Disturbi d’Ansia portano un forte e permanente disagio psicologico con reazioni di fuga, evitamento, intensa paura, incapacità di fare cose semplici, così come sintomi psicofisici destabilizzanti come spasmi, nausea, pallore, sudorazione, tachicardia, sensazione di soffocamento, vertigini, mal di testa, dolori, iper-attivazione, tensione e rigidità muscolare, blocco motorio.

 

ANSIA

 

I Disturbi d’Ansia possono produrre ulteriori problematiche psicologiche e fisiche come patologie organiche, abuso e/o dipendenza da alcol o da altre sostanze psicoattive (utilizzate per cercare di trovare sollievo dai numerosi sintomi d’ansia), disturbi dell’umore, problemi sessuali, problemi psicosomatici e/o sonno problematico.

Infine, tali disturbi psicologici, se non affrontati, possono con il passare del tempo cronicizzare, con il pericolo di intensificarne i disagi e le disfunzionalità arrecate nelle varie aree vitali della persona e di renderne la possibile risoluzione sempre più difficile.

Attualmente l’intervento psicologico per il trattamento dei Disturbi d’Ansia di elezione e di provata efficacia empirica risulta essere la terapia cognitiva-comportamentale (Practice GuidelinesAmerican Psychiatric Association, 2009).

Ad esempio le combinazioni di trattamenti cognitivi sembrano efficaci per il trattamento del Disturbo da Attacchi di Panico con agorafobia nei 2/3 dei casi, mentre in quello senza agorafobia il miglioramento interessa circa l’85% dei casi. 

QUALI SONO I DISTURBI DI ANSIA?

I sintomi del disturbo d’ansia generalizzata coinvolgono sia la sfera psichica che quella fisica e corrispondono ad un generale stato di allerta e di costante preoccupazione che genera tensione motoria e attivazione psichica. Questo stato di tensione prolungata può inoltre determinare sintomi come: senso di stanchezza cronica, cefalee muscolo tensive, dolori muscolari, disturbi gastro-intestinali e problemi nel sonno (sia nella fase di addormentamento che nelle fasi centrali del sonno).

 

I sintomi principali del disturbo d’ansia generalizzata sono:
• Irrequietezza o tensione psichica costante
• Sensazione di costante svuotamento e fatica cronica
• Fatica nella concentrazione con conseguente riduzione della memoria
• Facile nervosismo ed irritabilità
• Tensione muscolare cronica che può concentrarsi negli arti, nei muscoli del collo, della schiena e generare dolore
• Difficoltà nel sonno che si possono tradurre come difficoltà nell’addormentamento, nel mantenimento del sonno, oppure in un sonno agitato e non ristoratore
• Rimuginio

 

 

Il DSM-5 (Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders), redatto dall’American Psychiatric Association e uscito nel 2013, identifica per poter fare diagnosi di disturbo d’ansia generalizzata, i seguenti criteri:

A. Eccessiva ansia e preoccupazione che si presentano per la maggior parte dei giorni per almeno sei mesi e che riguardano una serie di attività ed eventi di vita quotidiani (come la scuola o il lavoro);

B. Difficoltà a controllare la propria preoccupazione;

C. L’ansia e la preoccupazione sono collegati ad almeno tre dei seguenti sintomi che devono essere presenti per diversi giorni negli ultimi sei mesi:

_ sentirsi irrequieti, agitati o coi nervi a fior di pelle

_ sentirsi stanchi facilmente

_ difficoltà a concentrarsi o vuoti di memoria

_ irritabilità

_ tensione muscolare

_ disturbi del sonno (difficoltà ad addormentarsi o stare addormentati, o un sonno disturbato)

Mentre per gli adulti sono necessari almeno tre sintomi, per fare diagnosi a bambini è sufficiente un solo sintomo;

D. L’ansia, le preoccupazioni o i sintomi fisici causano stress significativo o creano problematiche nel funzionamento sociale, lavorativo o in altre aree importanti per l’individuo;

E. Il disturbo non è attribuibile agli effetti fisiologici di sostanze (come abuso di sostanze stupefacenti) o altre condizioni mediche (per esempio l’ipertiroidismo);

F. Il disturbo non può essere meglio spiegato da un’altra condizione o disturbo psichico (ad esempio l’ansia anticipatoria del disturbo di panico).

In genere il disturbo d’ansia generalizzata si trova in comorbilità con altri disturbi psichiatrici. È frequente infatti riscontrare una correlazione con la depressione, oppure con il disturbo d’attacchi di panico o altri disturbi d’ansia o dell’umore. 

 

ANSIA

 

La stretta correlazione tra il disturbo d’ansia generalizzata e altri disturbi psichici (in particolare con il disturbo depressivo maggiore) è ampiamente documentata in letteratura, tanto che qualche autore sostiene che “il Disturbo d’Ansia Generalizzata può essere considerato una manifestazione prodromica, incompleta o residuale di altri disturbi psichici” (Garvey et al. 1988).

Così come per molti disturbi psichici, anche per il disturbo d’ansia generalizzata si parla di disturbo a genesi multifattoriale. Questo significa che sono presenti, in concomitanza, cause psicologiche, biologiche e ambientali.

Trattamento: oltre quando necessario al supporto farmacologico, sono diversi i modelli di psicoterapia da cui derivano diverse tecniche di intervento. Tra quelli di dimostrata efficacia quello psicodinamico-psicoanalitico (che in genere interpreta la sofferenza come manifestazione di conflitti e pulsioni inconsce), e quello cognitivo-comportamentale.

Nella cura del disturbo d’ansia generalizzata vengono inoltre utilizzate numerose tecniche terapeutiche volte a far apprendere al paziente delle strategie per promuovere uno stato di rilassamento (ad esempio il Rilassamento muscolare progressivo di Jacobson e il Training Autogeno).

La possibilità per il terapeuta di conoscere entrambi gli approcci terapeutici psicoanalitico e cognitivo-comportamentale, come avviene nell’ambito della Psicoterapia Breve Integrata, utilizzandoli in modo integrato nel trattamento psicoterapeutico, rappresenta un indubbio vantaggio clinico nella cura di tale disturbo come di altri disturbi d’ansia.

Nella mia pratica clinica infatti utilizzo sovente col medesimo paziente, tecniche di matrice psico-analitica, insieme con altre mediate dall’approccio cognitivo comportamentale per garantire una maggiore efficacia nel trattamento dei problemi trattati.

Gli attacchi di panico sono episodi durante i quali, chi ne soffre, è preda di forte ansia e paura molto intensa, senza un apparente pericolo. Il termine “panico” deriva dalla mitologia greca, in particolare dal dio Pan, il dio dei pascoli e della natura. Il dio Pan era un essere spaventoso, aveva infatti il corpo mezzo umano e mezzo caprino. Il mito racconta che il dio Pan era solito attaccare improvvisamente le ninfe del bosco, durante il meriggio, per possederle, suscitando in loro un terrore vivissimo e bloccante, appunto il “timor panico”.

 

Gli attacchi di panico sono stati di ansia acutissima, che insorgono per lo più inaspettatamente e che portano a provare sensazione di morte imminente, perdita del controllo o paura di impazzire. Durante gli attacchi sono presenti numerosi sintomi fisici che allarmano il soggetto, come fatica a respirare con senso di oppressione toracica, dolore al petto, tachicardia e vertigini.

 

Il disturbo di panico è caratterizzato dalla presenza di ricorrenti attacchi di panico (almeno due, anche se in genere gli attacchi sono molti di più) definiti come “inaspettati”. Il termine “inaspettati” sta a significare che, apparentemente, non si evidenziano cause scatenanti l’attacco. In un disturbo di panico gli attacchi compaiono come fulmini a ciel sereno, quando magari un individuo si sta rilassando o addirittura durante il sonno.

 

 

I criteri per fare diagnosi, secondo il DSM-5 (Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders), di Disturbo di Attacchi di Panico sono:

A. Ricorrenti e inaspettati attacchi di panico. Gli attacchi di panico sono caratterizzati dal brusco e repentino manifestarsi di intensa paura e disagio e raggiungono il picco di intensità in pochi minuti. Durante gli attacchi si devono presentare, in concomitanza, almeno 4 dei seguenti sintomi:

  • palpitazioni o tachicardia
  • sudorazione
  • tremori
  • sensazione di fiato corto o di fatica nel respirare
  • sensazione di soffocamento
  • dolore retrosternale
  • nausea o dolori addominali
  • vertigini, sensazione di instabilità, testa leggera o sensazione di svenimento
  • brividi o vampate di calore
  • parestesie (sensazioni di formicolio o di intorpidimento)
  • derealizzazione (sensazioni di irrealtà) o depersonalizzazione (sentirsi separato da sè stesso)
  • sensazione di perdita del controllo o di “diventare matto”
  • paura di morire;

B. Almeno uno degli attacchi è seguito da un mese o più, durante il quale si presenta uno o entrambi dei seguenti sintomi:

  • Paura o preoccupazione persistente relativa alla possibilità di avere altri attacchi di panico o alle relative conseguenze (per es. avere paura di perdere il controllo, paura di avere un attacco di cuore, o di diventare matto);
  • Cambiamenti nei comportamenti quotidiani che procurano un disadattamento significativo e collegati agli attacchi di panico (ad esempio evitare luoghi o situazioni sociali, evitare situazioni non familiari, ridurre gli interessi;

C. Il disturbo non è collegabile all’effetto fisiologico di sostanze (ad es. abuso di droghe) o altre condizioni mediche (ad es. ipertiroidismo);

D. Il disturbo non è meglio spiegato da altri disturbi mentali (ad es. gli attacchi di panico non si presentano solamente in determinate situazioni sociali, oppure di fronte a stimoli fobici definiti, a lutti o abbandoni o altre specifiche condizioni di vita).

 

Le cause degli attacchi di panico possono essere molto diverse tra loro. In genere il primo attacco si verifica durante un periodo particolarmente stressante dell’individuo. Lo stress può derivare da eventi acuti (ad esempio un lutto, una perdita, una malattia grave) oppure cronici (periodi di iper-lavoro, scarso riposo, situazioni cronicamente conflittuali).

 

Altre situazioni possono causare il primo attacco di panico: cause fisiologiche, come la menopausa nelle donne, oppure cambiamenti di ruolo, come il pensionamento. In generale, quando c’è un passaggio, un cambiamento importante nella vita dell’individuo questo può aumentare lo stress fisico e/o psicologico.

Dopo il primo attacco in genere l’individuo sviluppa una forte preoccupazione e vive in uno stato costante di apprensione. “Se il primo attacco è stato inaspettato allora potrebbe ripresentarsi ancora senza nessun avvertimento”. Questo pensiero è molto comune tra chi soffre di attacchi di panico e porta i soggetti a rimanere in uno stato di tensione costante, in una sorta di ansia anticipatoria, di “paura della paura” che porta ad aumentare i livelli di stress e quindi favorire futuri attacchi. Si instaura quindi un circolo vizioso, dove è la “paura di avere un attacco di panico” che alimenta l’ansia, che diventa panico e che produce un nuovo attacco.

 

In genere chi soffre di attacchi di panico sviluppa delle conseguenze oltre che sul piano cognitivo ed emotivo, anche sul piano comportamentale. Chi soffre infatti di attacchi di panico può sviluppare preoccupazioni rispetto alla propria salute fisica (i pazienti possono pensare che gli attacchi siano dovuti ad una qualche grave malattia che mette in pericolo la loro vita) oppure possono sviluppare problemi nella sfera sociale e nelle autonomie personali.

 

 ANSIA

 

Chi soffre di attacchi di panico inoltre può sviluppare comportamenti non adattivi che portano ad evitare posti e luoghi precedentemente frequentati. Le persone possono ridurre notevolmente il numero delle loro attività quotidiane, tralasciando così interessi e passioni. Per paura di nuovi attacchi possono smettere di frequentare contesti pubblici come un supermercato o un negozio di vestiti, fino a non riuscire a recarsi nemmeno sul posto di lavoro.

Possono sentirsi costantemente in allarme e iper-monitorare i loro segnali fisiologici (ad es. battito cardiaco, tensione muscolare, frequenza del respiro) mantenendosi in uno stato di costante attivazione psicologica. In casi più gravi chi soffre di disturbo da attacchi di panico può non riuscire più ad uscire di casa per paura di un possibile attacco. In questo modo, alimentando i meccanismi di evitamento, la persona riduce progressivamente le attività quotidiane riducendo così la qualità della sua vita, la sua autonomia e il suo benessere psicologico generale.

 

Trattamento: La cura del disturbo di panico e la gestione degli attacchi di panico può prevedere diverse modalità terapeutiche: possono essere di tipo farmacologico, di tipo psicoterapeutico, oppure integrare farmacoterapia e psicoterapia.

Il primo passo fondamentale è comunque quello di accettare di avere un problema e di farsi aiutare. Difficilmente questi disturbi, per quanto non gravi, possono essere curati da soli e aspettare che possano risolversi spontaneamente fa perdere tempo prezioso nella cura. In diverse occasioni sono stato contattato da persone che mi chiedevano aiuto a riguardo, dopo che erano trascorsi mesi e mesi di sofferenza nella speranza che potessero risolversi senza un’adeguata terapia.

È necessario quindi l’intervento di un professionista che aiuti a trovare la strategia terapeutica più efficace, scongiurando il cronicizzarsi del disturbo ed evitando che si instauri il circolo vizioso della paura.

 

Terapie farmacologiche:

Ci sono diverse classi di farmaci che vengono impiegati con successo nel trattamento del disturbo di panico e nella gestione degli attacchi di panico. Una tipologia di farmaci utilizzati sono le benzodiazepine. Le benzodiazepine sono farmaci sintomatici (agiscono sui sintomi ansiosi), portando ad una rapida remissione o al controllo degli attacchi di panico. Sono però farmaci che possono portare a sviluppare tolleranza e dipendenza. Inoltre spesso, alla sospensione del trattamento con benzodiazepine, il disturbo può ripresentarsi.

Altre classi di farmaci utilizzati per gli attacchi di panico sono gli antidepressivi. Attualmente vengono privilegiati i cosiddetti “antidepressivi di nuova generazione” che, rispetto ai vecchi antidepressivi, sono meglio tollerati e presentano minori effetti collaterali. Nella scelta di una terapia farmacologica è però indispensabile affidarsi al proprio psichiatra di fiducia, in quanto le terapie richiedono un attento controllo da parte di un medico. Inoltre la valutazione da parte di uno specialista può aiutare ad identificare eventuali disturbi in comorbilità al disturbo di panico (ad es. un disturbo depressivo), consentendo di impostare una migliore e più efficace terapia farmacologica.

 

Psicoterapia:

In generale la Psicoterapia cognitivo-comportamentale ha mostrato di essere efficace nel trattamento del Disturbo di Panico. Attraverso esercizi di rilassamento, di gestione e controllo del respiro, uniti ad un lavoro su pensieri e idee disfunzionali è possibile superare il Disturbo di Panico e ritrovare un senso di benessere e di auto-efficacia.

Parte fondamentale del processo di cura è la psico-educazione che consiste nel fornire informazioni cliniche sugli attacchi di panico, sulla loro non pericolosità e sui meccanismi che spesso mantengono e sostengono il disturbo. Vengono fornite informazioni su strategie per controllare il disturbo, vengono affrontate le principali paure e vengono sfatati molti falsi miti (ad es. l’attacco di panico non è pericoloso, non significa che il soggetto stia impazzendo, non è possibile svenire durante un attacco di panico). Inoltre vengono affrontate le principali strategie non adattive del soggetto e viene aiutato il paziente a riappropriarsi della propria quotidianità.

Una delle conseguenze degli attacchi di panico può essere lo sviluppo di agorafobia, un disturbo d’ansia che si ritrova nel DSM-5 (Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders). Nonostante l’etimologia suggerisca che l’agorafobia sia la paura degli spazi aperti (dal greco αγορά: piazza e φοβία: paura), in realtà il termine è utilizzato per descrivere la paura collegata a diversi luoghi.

 

AGORAFOBIA: LA PAURA DEGLI SPAZI APERTI E DELLA FOLLA

 

Nello specifico con il termine agorafobia si intende la paura:

  • di usare trasporti pubblici (treni, autobus, taxi etc.)
  • degli spazi aperti (centri commerciali, ponti etc.)
  • degli spazi chiusi (negozi, cinema, ascensore etc.)
  • dello stare in fila o in mezzo ad una folla
  • di stare da solo fuori casa

 

In genere è possibile che il disturbo di panico si associ all’agorafobia. Spesso infatti, come abbiamo visto, la paura di avere degli attacchi in contesti pubblici, o la paura di non avere immediato supporto, porta le persone ad evitare determinate situazioni o contesti. L’evitamento però rinforza la paura e la alimenta, portando così allo sviluppo dell’agorafobia.

 

 ANSIA-1

La fobia specifica è caratterizzata da un’ansia clinicamente significativa provocata dall’esposizione a un oggetto o a una situazione temuti (per es., volare, altezze, animali, ricevere un’iniezione, vedere il sangue), che spesso determina condotte di evitamento. L’esposizione allo stimolo fobico quasi invariabilmente provoca una risposta ansiosa immediata, che può prendere forma di attacco di panico causato dalla situazione o sensibile alla situazione.

Nei bambini, l’ansia può essere espressa piangendo, con scoppi di ira, con l’irrigidimento, o con l’aggrapparsi a qualcuno. La persona riconosce che la paura è eccessiva o irragionevole. L’evitamento, l’ansia anticipatoria o il disagio nella situazione temuta interferiscono in modo significativo con la normale routine della persona, con il funzionamento lavorativo (o scolastico), con le attività o le relazioni sociali, oppure è presente disagio marcato per il fatto di avere la fobia.

La fobia sociale è caratterizzata da un’ansia clinicamente significativa provocata dall’esposizione a certi tipi di situazioni o di prestazioni sociali nelle quali la persona è esposta a persone non familiari o al possibile giudizio degli altri che spesso determina condotte di evitamento. L’individuo teme di agire (o di mostrare sintomi di ansia) in modo imbarazzante o umiliante.

 

 ANSIA-5

 

L’esposizione alla situazione temuta quasi invariabilmente provoca l’ansia, che può assumere le caratteristiche di un attacco di panico causato dalla situazione o sensibile alla situazione.

Nei bambini, l’ansia può essere espressa piangendo, con scoppi di ira, con l’irrigidimento, o con l’evitamento delle situazioni sociali con persone non familiari. La persona riconosce che la paura è eccessiva o irragionevole. L’evitamento, l’ansia anticipatoria o il disagio nella situazione sociale o prestazionale interferiscono significativamente con le abitudini normali della persona, con il funzionamento lavorativo (scolastico), con le attività o relazioni sociali, oppure è presente marcato disagio per il fatto di avere la fobia.

La fobia sociale compare nel DSM-5 nel capitolo dei disturbi d’ansia. Il DSM elenca una serie di requisiti e sintomi che devono essere presenti per poter fare diagnosi. 

 

I criteri sono i seguenti:

A. Intensa paura o ansia relativa a uno o più situazioni sociali nelle quali il soggetto può essere osservato e giudicato da altre persone. Esempi possono riguardare le interazioni sociali (ad esempio incontrare persone non conosciute), essere osservati (ad esempio mentre si sta mangiando) oppure quando si agisce una prestazione davanti ad un pubblico (ad esempio cantare ad un concerto o parlare in pubblico);

B. La paura dell’individuo di mostrare, in quella situazione sociale, i sintomi ansiosi e di essere quindi giudicato negativamente dagli altri;

C. La situazione sociale produce quasi sempre paura e ansia;

D. La situazione sociale temuta è evitata oppure affrontata ma con intensa paura e ansia;

E. La reazione ansiosa è sproporzionata rispetto alla reale situazione sociale e al contesto socioculturale di riferimento;

F. La paura, l’ansia o le strategie di evitamento sono persistenti e durano da almeno 6 mesi;

G. I sintomi creano un disagio clinico significativo nell’area sociale, lavorativa o in altre aree importanti di vita;

H. I sintomi non sono causati da sostanze psicoattive, farmaci o altre condizioni mediche;

I. I sintomi non sono meglio spiegati da un altro disturbo psichico (ad es. disturbo di panico);

J. Se presente un disturbo medico (ad es. disturbo di Parkinson) l’ansia sociale è chiaramente eccessiva e non strettamente collegata al disturbo medico.

 

Il DSM-5 inoltre definisce due tipologie di disturbo da fobia sociale. Se infatti i sintomi si presentano solamente quando il soggetto deve effettuare una performance pubblica (come parlare in pubblico) allora si parla di “Disturbo da fobia sociale correlato alle performance”. In genere questo tipo di disturbo può essere diagnosticato in musicisti, ballerini, atleti, musicisti, etc. In casi in cui invece il disturbo si presenti anche in altri contesti sociali allora si utilizza la denominazione semplice “Disturbo da fobia sociale“.

 

Le cause che portano a sviluppare una fobia sociale sono diverse. Come per le fobie specifiche anche l’ansia sociale è collegata a comportamenti appresi in passato, in genere in età infantile. Esperienze negative nel passato, come essere oggetto di umiliazione pubblica, o di critica o di aggressione possono portare a sviluppare la fobia sociale.

 

 

Chi soffre di fobia sociale inoltre è tendenzialmente portato ad avere paura del rifiuto e del giudizio altrui. Sono spesso convinti inoltre che la manifestazione esteriore di sintomi d’ansia (come il mostrarsi agitati, diventare rossi etc.) possa provocare loro un danno a livello sociale (ad esempio perdere la reputazione o essere derisi). Queste paure portano in genere ad una forte attenzione rispetto ai segnali del proprio corpo, ad un eccessivo monitoraggio dei propri segnali corporei, ad ansia anticipatoria e alla presentazione conseguente di sintomi ansiosi legati a determinati contesti.

 

Trattamento: La cura della Fobia Sociale prevede in genere percorsi di psicoterapia, una terapia psico-farmacologica o entrambe. Per quel che riguarda le psicoterapie, ad oggi hanno mostrato buoni risultati le terapie cognitivo-comportamentali e quelle comportamentali.

A differenza delle fobie specifiche, che traggono poco giovamento dai farmaci, nella cura della fobia sociale l’utilizzo di psicofarmaci ha mostrato una buona efficacia. In genere i farmaci maggiormente utilizzati in questi casi sono i farmaci antidepressivi. L’utilizzo della terapia farmacologica, della psicoterapia o di entrambe nella cura della fobia sociale è una scelta che viene generalmente fatta dal professionista.

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L’ansia di separazione è un fenomeno normalmente presente durante lo sviluppo neuropsicologico del bambino che, in genere, tende spontaneamente ad attenuarsi dopo i 2 anni, per scomparire pressoché completamente prima della pubertà, benché con tempi e modalità differenti da caso a caso. A dover preoccupare è la persistenza di un’ansia di separazione significativa dopo i 6-5 anni.

Per chi soffre di disturbo d’ansia di separazione ogni motivo o situazione che implica un allontanamento (dai genitori, dal marito o dalla moglie, dall’amico del cuore, dalla propria abitazione ecc.) genera paura e ansia così significative da risultare limitanti nelle scelte di vita, con esiti anche invalidanti. Paura e ansia possono essere associate al timore che accada qualcosa di negativo e irrimediabile ai propri cari durante la lontananza (malattie, morte ecc.) oppure all’idea di poter essere personalmente vittima di incidenti, rapimenti ecc. Ancorché irragionevole, il disagio psico-emotivo associato al disturbo d’ansia di separazione è così marcato e disturbante da indurre la persona interessata a evitare in tutti i modi di allontanarsi da casa o di restare sola.

 

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Quando un bambino soffre di disturbo d’ansia di separazione può essere pressoché impossibile riuscire a farlo giocare o dormire da solo nella propria stanza e, spesso, i genitori o le altre figure di riferimento sono costantemente seguite in ogni spostamento, anche di pochi metri, pur di mantenerle nel raggio visuale. La presenza di disturbo d’ansia di separazione nell’infanzia, oltre a complicare notevolmente la vita dei genitori, può compromettere la crescita serena del bambino, che dovrà essere forzato a svolgere ogni attività indipendente fuori casa: dall’andare a scuola al frequentare palestre o piscine, dal partecipare a una festa al dormire a casa di amici o in campeggio ecc. Ciò può limitare notevolmente le esperienze relazionali e di vita durante l’infanzia/adolescenza, con ripercussioni negative sulla vita sociale, affettiva e professionale anche in età adulta. Il clima familiare che si crea, inoltre, può indurre tensioni e deteriorare la relazione tra i genitori, specie in caso di disaccordo sulla strategia educativa da seguire.

 

La diagnosi per il disturbo d’ansia di separazione può riguardare sia bambini che adulti.

 

Sintomi tipici del Disturbo d’ansia di separazione:

  • Difficoltà persistente a lasciare i genitori/persona di riferimento o l’abitazione.
  • Timore costante ed eccessivo che possa accadere qualcosa di tragico a un genitore/persona di riferimento.
  • Timore costante ed eccessivo che si possa essere vittima di incidenti o rapimenti mentre si è soli.
  • Rifiuto fermo e sistematico di allontanarsi da casa o di rimanere a casa da soli.
  • Incubi ripetuti di separazione dai genitori/persona di riferimento o di perdersi in un luogo ignoto.
  • Comparsa di sintomi e malesseri fisici (veri o presunti), come mal di testa, dolori addominali ecc. ogni volta che ci si deve allontanare da casa o dai genitori/persona di riferimento.
  • Tendenza a essere molto “appiccicosi”, invadenti, a richiedere attenzione e presenza costanti.
  • Umore ansioso e depresso, apatia e disinteresse, irrequietezza e forte malinconia se costretti a restare soli lontano da casa.

 

Per poter emettere la diagnosi di disturbo d’ansia di separazione, i sintomi devono essere significativi e impedire a chi ne soffre di dedicarsi alle comuni attività tipiche dell’età. I sintomi devono, inoltre, essere presenti per almeno 4 settimane in bambini e ragazzi fino a 18 anni e per almeno 6 mesi negli adulti, tuttavia, in questo secondo caso, nella valutazione della durata del disturbo come “clinicamente significativa” è ammessa una certa flessibilità.

Le cause esatte dell’ansia di separazione non sono note, ma si ritiene che a promuovere l’insorgenza del disturbo sia la concomitanza di un profilo psicologico predisponente e dell’esposizione a traumi o eventi stressanti nell’infanzia e/o negli anni successivi (compresi forti traumi in età adulta). Nel caso dei bambini, la nascita di un fratellino, un trasloco o la malattia (anche non grave) di un genitore che comporti un ricovero ospedaliero di diversi giorni possono costituire un fattore stressante sufficiente a indurre il disturbo.

 

Trattamento: il disturbo può essere efficacemente affrontato con un trattamento psicoterapeutico, di tipo cognitivo-comportamentale, anche di breve durata. Soprattutto nel caso dei bambini-adolescenti, la psicoterapia deve necessariamente coinvolgere anche i familiari/le persone di riferimento. Soprattutto nel caso dei bambini, non è di norma previsto l’uso di farmaci.

 

 

Consigli pratici per i genitori

  • Evitate di anticipare o rendere particolarmente evidenti i momenti di separazione.
  • Quando dovete uscire di casa o lasciare solo il bambino (per esempio, a scuola), salutatelo con affetto, ma in modo asciutto e senza eccessivo coinvolgimento emotivo. Per quanto il vostro cuore si riduca in mille pezzi ogni volta che varcate la soglia di casa e sentite vostro figlio piangere alle vostre spalle, non cadete nella tentazione di tornare indietro. A livello psicologico questo non farà altro che rinforzare il pianto del bambino che penserà: “Ehi, se ne stava andando, mi ha sentito piangere ed è tornato/a…fantastico! La prossima volta mi impegnerò a strillare ancora più forte!”.
  • Allontanatevi da casa quando il bambino è in uno stato di benessere (riposato, non affamato ecc.).
  • Trovate un diversivo allegro (gioco, programma TV, arrivo di un amico ecc.) che possa distrarre il bambino durante la vostra assenza.
  • Abituate gradualmente il bambino a restare solo con persone diverse dai genitori (babysitter, nonni, zii, educatori ecc.).
  • Regalate al bambino un oggetto che possa in qualche modo ricordare la vostra presenza quando siete assenti.
  • Organizzate con vostro figlio il tempo che passerà senza di voi. Fate in modo che si impegni in attività gratificanti, possibilmente scelte da lui stesso. Potete proporgli di fare un disegno che vi farà vedere quando tornerete oppure di farsi leggere una storia che vi racconterà al vostro ritorno.
  • Quando tornate a casa complimentatevi con vostro figlio per essere riuscito ad affrontare la situazione. Fate in modo che si senta fiero di sé stesso per essere riuscito a superare la difficile sfida della lontananza.
  • Dopo esservi complimentati con lui, dedicate un pochino di tempo ad un’attività piacevole da svolgere insieme. In questo modo vostro figlio avrà presente che, anche se vi allontanate per un po’, quando tornate potrete “recuperare” la lontananza con un momento speciale tutto per voi.
  • Compatibilmente con l’età, insegnate al bambino a prendersi personalmente cura di un piccolo animale o di una pianta.

Il mutismo selettivo è un disturbo d’ansia che impedisce al bambino di esprimersi attraverso una normale verbalizzazione: la caratteristica principale del disturbo è la costante incapacità di parlare in situazioni sociali nelle quali ci si aspetta che l’eloquio sia presente se pur questo sia normale e avvenga liberamente in altri contesti considerati familiari.

 

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Il termine “selettivo” indica che il bambino riesce ad esprimersi solo con determinate persone delle quali si fida e in alcune circostanze nelle quali si sente sereno (solitamente l’ambiente familiare), ma mostra difficoltà in ambienti sociali in cui non si sente a proprio agio (in particolar modo nel contesto scolastico poiché è il luogo principale in cui il bambino è esposto a frequenti domande e richieste di prestazione). La selezione degli interlocutori può essere più o meno ampia fino ad arrivare anche ad un solo genitore.

Il grado di persistenza è variabile: può verificarsi per alcuni mesi oppure mantenersi per diversi anni.

La vera rivoluzione è rappresentata dall’ultima versione del DSM-5 (Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders) che elimina il disturbo dalla sezione “Altri disturbi dell’Infanzia, della fanciullezza o dell’adolescenza”, inserendolo nella sezione “Disturbi d’ansia” in seguito alle diverse evidenze scientifiche che identificano l’ansia come una delle caratteristiche principali all’interno di questo disturbo.

 

L’idea comune a chi si trova di fronte ad un bambino selettivamente muto è che il suo comportamento sia provocatorio e di sfida, tuttavia è di fondamentale importanza comprendere che l’assenza della parola è dettata da un elevato livello d’ansia e una conseguente paura che il bambino riesce a controllare solamente tacendo.

 

Questi bambini sono consapevoli della loro difficoltà, provando molta sofferenza e frustrazione perché desiderano fortemente riuscire a parlare e giocare con gli amici. A causa della forte paura che le interazioni sociali suscitano in questi bambini le loro espressioni facciali risultano inespressive, vi è difficoltà a mantenere il contatto visivo con l’interlocutore ed elevata sensibilità per l’ambiente circostante. Il linguaggio del corpo è impacciato e goffo quando si rivolge loro attenzione, è tipico di questi bambini voltare la testa o guardare a terra durante una conversazione, toccarsi i capelli (segnale di un elevato livello di ansia) oppure nascondersi.

Molto spesso i bambini lamentano sintomi fisici quali: mal di stomaco, mal di testa, nausea, manifestazioni di pianto o di collera; con l’aumentare dell’età i sintomi si modificano in palpitazioni cardiache, svenimenti, tremori e eccessiva sudorazione. A scuola molti bambini hanno difficoltà a chiedere di andare al bagno e a mangiare: i bambini rifiutano di nutrirsi, nascondono il cibo o attendono che i compagni abbiano terminato il pranzo e se ne siano andati.

Le cause responsabili del Mutismo Selettivo sono ad oggi poco chiare poiché le spiegazioni presenti in letteratura sono varie e ampiamente diversificate. L’ipotesi più accreditata è che il disturbo sia una condizione eterogenea determinate da diversi fattori, in primis fattori genetici e ambientali.

 

Trattamento: Il primo passo da compiere è un colloquio approfondito con i genitori a cui seguirà l’incontro con il bambino. In questa fase l’osservazione dei disegni, del gioco libero e del linguaggio corporeo risulta molto utile. Il clinico deve compiere un’analisi funzionale del comportamento del bambino per giungere alla formulazione di un percorso di trattamento il più idoneo possibile al bambino e all’ambiente in cui vive. Ciò che si può affermare con certezza è che quanto prima il disturbo viene diagnosticato e trattato nel modo corretto tanto maggiore sarà la possibilità di superare il problema.

Sul versante della psicoterapia, negli ultimi anni l’approccio più citato in letteratura è sicuramente quello cognitivo-comportamentale. In questo caso lo scopo è quello di diminuire i livelli di ansia e incrementare la verbalizzazione. Le tecniche maggiormente utilizzate sono quelli di stampo comportamentale, visto che si lavora nella maggior parte di casi con bambini, spesso coinvolgendo anche altre figure significativi quali le insegnanti.

La terapia psicoanalitica sembra essere il trattamento più adatto per bambini in età prescolare (3-5 anni) perché utilizza primariamente come strumenti d’indagine il disegno e il gioco.

La possibilità per il terapeuta di conoscere entrambi gli approcci terapeutici psicoanalitico e cognitivo-comportamentale, utilizzandoli in modo integrato nel trattamento psicoterapeutico, rappresenta un indubbio vantaggio clinico nella cura di tale disturbo come di altri disturbi d’ansia. 

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