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Psico-Oncologia

PSICO-ONCOLOGIA

L’aiuto psicologico in ambito oncologico nasce a metà del secolo scorso ed è oggi una disciplina specifica della psicologia che come tale richiede una formazione ed un’esperienza approfondita, meglio se maturata in ambito ospedaliero a stretto contatto con la realtà che il paziente oncologico e i famigliari si trovano a vivere.

 

Da oltre 10 anni mi occupo di offrire sostegno psicologico a pazienti malati di tumore e ai loro famigliari, avendo maturato l’esperienza in questo particolare ambito, lavorando all’interno dell’equipe medica in diversi reparti di oncologia e radioterapia di aziende ospedaliere sul territorio.

 

Lo psico-oncologo è uno psicologo con specifica formazione ed esperienza in ambito oncologico che lavora al fianco del malato e dei familiari per supportarli nel percorso di malattia. Le reazioni che si presentano sin dal momento della diagnosi sono davvero molte, all’inizio c’è spesso uno stato di shock e di negazione che si presentano con un senso di incredulità, momenti in cui la persona si sente “lontana” dalla situazione, sospesa. Seguono poi tante altre emozioni come ansia, paura, angoscia, rabbia, impotenza, a volte senso di colpa. Anche la famiglia rimane fortemente colpita e si verificano dinamiche che possono essere sane, ma anche all’opposto non utili al paziente già sofferente nel corpo. Il ruolo dello psico-oncologo è quello di aiutare a capire cosa sta accadendo, sostenere e consentire che vengano attivate le risorse personali utili ad affrontare al meglio la malattia.

A seguire approfondisco alcune tematiche comuni che mi è capitato di incontrare nel percorso che vede protagonista il paziente oncologico.

 

 

Per approfondire ulteriormente nel 2015 ho scritto un opuscolo in collaborazione con il Reparto di Radioterapia dell’Ospedale Humanitas di Rozzano in cui partendo dalle storie di alcuni pazienti, delineo alcune tematiche comuni nel percorso di cura del paziente oncologico. Approfondisci qui

 

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DIFFICOLTÀ A CHIEDERE AIUTO

 

Nelle varie fasi della malattia potrai sentire di avere energie o al contrario potrai avere la sensazione di partire già sconfitto anziché reagire come gli altri vorrebbero o come ti è consigliato. Talvolta possono nascere sensi di colpa perché ti sentirai più debole rispetto alla reazione attesa dai tuoi cari o dal personale sanitario. È il momento in cui le frasi che più ti accompagnano possono essere: “Coraggio, reagisci”“non fare così, non ti buttare giù”“Ora dipende tutto da te”. Quando sei scoraggiato potrai sentire che alcuni sentimenti di tristezza, disperazione, anche di incapacità nell’affrontare il percorso terapeutico sono sottovalutati da chi ti è vicino o poco compresi: questo può ulteriormente aggravare il senso di tristezza e di solitudine.

In questo momento anche chiedere aiuto può sembrare un sintomo di debolezza o un segno di inadeguatezza. La sensazione di essere sul punto di non farcela più o di avere bisogno di aiuto è invece del tutto comprensibile ed è un’esperienza comune quando si affronta una crisi così profonda come quella della malattia oncologica.

In questa fase della vita, se decidi di chiedere il sostegno di uno psicologo, scegli di essere accompagnato/a in un percorso che vuole aiutare ad attivare e riorganizzare le tue risorse per trovare un nuovo equilibrio, nel pieno rispetto delle tue intenzioni e capacità. Chi si rivolge allo psicologo per avere un sostegno nel difficile cammino della malattia, trova nell’altro un ascolto attivo ed empatico che lo può favorire nel manifestare e comprendere le proprie emozioni e le difficoltà che si possono incontrare.

Lo psicologo non si occupa di malattie mentali, non dà farmaci e non “strizza il cervello”. Lo psicologo ti accoglie, ti ascolta se hai voglia di parlare e ti è vicino se non ne hai voglia. E quando ti va puoi guardare dentro di te e vedere dove sono finite tutte le tue risorse, perché se anche ti sembra di averle esaurite, le tue capacità sono lì e con l’aiuto di un esperto accompagnatore possono essere riscoperte, rivalutate e valorizzate.

 

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LA DIAGNOSI

 

La comunicazione della diagnosi di tumore rappresenta uno degli eventi più stressanti che alcune persone si trovano a dover affrontare nel corso della loro vita, con cambiamenti che investono non solo il fisico, ma anche la mente: cambia il modo di percepire e sentire il proprio corpo, cambia la percezione che si ha del mondo, cambia la progettualità di vita, cambiano le relazioni sociali e interpersonali. 

Si tratta di una fase molto delicata e difficile sia per il paziente che per i suoi familiari: di fronte alla parola “cancro” o “tumore” la primissima reazione è avvertire un senso di confusione, sbandamento, un vero e proprio shock traumatico (“non è possibile stia succedendo proprio a me”). Il cancro è una parola che evoca emozioni angoscianti, rimanda a uno scenario altamente catastrofico nell’immaginario collettivo, ad una “condanna a morte”, più di ogni altra malattia esistente.

L’incontro con la malattia è spesso accompagnato da nuovi bisogni psicologici ed emotivi: bisogni di accudimento, di rassicurazione, di vicinanza emotiva oltre che da parte dei propri familiari anche da parte dell’equipe curante (medici, infermieri …). Può capitare di voler sapere tutto sul proprio stato, informandosi, o al contrario di non voler sapere nulla, almeno all’inizio. 

Non c’è un modo giusto di reagire, tutti i vissuti emotivi sono legittimi.

Tante sono le reazioni emotive che si possono accavallare, sovrapporre: nervosismo, paura, ansia, senso di colpa, profonda tristezza, sono tutte reazioni frequenti, ma che si sentono raramente comprese dalle persone che sono accanto ai pazienti. A tutto questo si possono aggiungere altre preoccupazioni, come quella per il proprio aspetto, per il proprio futuro, più in generale per la propria vita e per i propri cari. Queste preoccupazioni, del tutto naturali, possono però essere tanto forti e intense da diventare l’unica occupazione quotidiana, invadendo ogni pensiero durante la giornata e impedendo qualsiasi attività. In questo caso potrebbe giovare chiedere un aiuto, un sostegno: rivolgersi ad uno psicologo aiuterà per esempio a dare voce e definire meglio queste emozioni e a gestirle ed affrontarle nel modo più adeguato.

 

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LE TERAPIE

 

Nel caso di una malattia oncologica le terapie oltre ad essere sinonimo di speranza e di cura, possono suscitare molte preoccupazioni, incertezze e paure. Intervento chirurgico, chemioterapia, radioterapia, trapianto, cure ormonali, sono parole che spaventano ed è normale se pensiamo a quante volte le abbiamo sentite pronunciare in negativo. 

 

 

Le persone vicine ai pazienti possono rivolgere frasi che pur volendo essere di incoraggiamento (“coraggio, è solo una terapia”, “le ha fatte anche il nonno ed è guarito”), aprono invece più spesso scenari di paura e rabbia nella mente del paziente (“SOLO una terapia?”, “mi cadranno i capelli e tutti mi guarderanno?”, “e se non dovessi guarire?”). Spesso in questa fase, che porta con sé speranze e paure, i famigliari e le persone vicine ai pazienti non sono sempre in grado di comprendere e farsi carico dei bisogni emotivi del paziente, proprio perché inevitabilmente coinvolti con lui. Può quindi risultare utile avere un sostegno psicologico in grado di dare spazio e voce a tutti questi pensieri, uno spazio in cui condividere, esternare le paure per renderle meno pressanti e più comprensibili.

 

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LE REAZIONI EMOTIVE “GIUSTE”

 

La cultura in cui siamo nati e cresciuti e la società in cui viviamo ci sollecitano tramite i mass media a sorridere sempre, come se la gioia fosse l’unica emozione legittima e l’unica a poter essere esternata e condivisa.

Si crea quindi crescendo la convinzione che se non sorridiamo, non valiamo e non siamo una compagnia piacevole e meritevole di affetto e amore. Quasi come se le emozioni si dividessero tra quelle giuste e degne di essere espresse e quelle inadeguate da reprimere e nascondere a tutti i costi. In realtà tutte le emozioni e non soltanto la gioia (paura, tristezza, rabbia, disgusto) sono legittime e ci aiutano come valide alleate a orientarci nel mondo, attribuendo un significato a quanto ci succede per poter poi investire le nostre risorse al meglio per realizzare i nostri bisogni. Ogni evento o pensiero quindi è in grado di elicitare delle reazioni emotive, congrue con quanto stiamo vivendo e necessarie ad affrontare l’evento che le promuove.    

 

 

Nel corso di una malattia grave come quella oncologica probabilmente ci saranno momenti di ottimismo e momenti di pessimismo, la tranquillità si alternerà all’ansia e alla tristezza, l’umore sarà sempre in movimento. In questo momento tanto delicato sentire il bisogno di un aiuto esterno per affrontare quanto sta capitando, significa avere consapevolezza, forza e rispetto di sé stessi e dei propri limiti che esistono proprio perché siamo esseri umani. Le risorse e le energie sono messe a dura prova dalla malattia e quindi è necessario ricercare il maggior aiuto possibile, anche all’esterno. 

La malattia oncologica infatti va oltre la fase iniziale della diagnosi: ad essa seguiranno altri momenti come la terapia, l’intervento chirurgico, i controlli.

Ogni momento richiederà nuove energie per essere affrontato e in ogni momento sarà importante riuscire a prendersi il giusto tempo per affrontarlo. È importante evitare di sopravvalutare le proprie forze, evitare di arrendersi alla convinzione che bisogna fare tutto da soli per non dimostrare di essere fragili o deboli. Spesso si sente il “dovere” di essere forti, di non farsi vedere in difficoltà dai propri cari, dai propri figli o in generale dalle persone che si amano. In altri casi si vuole tutelare la propria immagine di persona imperturbabile, inattaccabile e sicura di sé. 

Alla fatica necessaria per affrontare la malattia con le terapie, i controlli, le visite si somma così anche la fatica di doversi mostrare forti e imperturbabili, indossando una maschera che non rappresenta il vero “sentire” della persona. Tutto questo richiede uno sforzo ulteriore di energie e impegno che può portare a un sovraccarico emotivo che prima o poi inevitabilmente è destinato a emergere in modo dirompente. Accettare le proprie difficoltà, diventarne consapevoli, senza provarne vergogna, chiedere aiuto saranno allora i nostri punti di forza, non le nostre fragilità, significherà aver capito che la malattia ci debilita e possiamo ricorrere al sostegno, non solo di familiari e amici, ma anche di un esperto, davanti al quale non dovremo preoccuparci di apparire sereni, ma con cui potremo esprimere tutta la gamma dei propri vissuti emotivi. 

 

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I FAMILIARI

 

L’incontro con il tumore è un evento stressante per tutta la famiglia. La preoccupazione può introdurre ostacoli alla comunicazione: per evitare di esternare troppo si può preferire parlare di meno o parlare di altro o parlare solo quando ci si sente di umore positivo. Questo può limitare la condivisione e far sentire un po’ isolati gli uni dagli altri; in altri casi invece la scoperta di una malattia unisce e fa superare piccole precedenti incomprensioni. Ogni familiare reagisce a modo proprio (con dolore, rabbia, colpa, impotenza, speranza…) e assume diversi atteggiamenti con il familiare malato: un atteggiamento iperprotettivo (perché ha paura e vuole proteggerlo da qualsiasi rischio), un atteggiamento di distacco (perché cerca di allontanare il dolore legato alla sua malattia e la paura di perderlo), un atteggiamento di eccessivo ottimismo (perché è difficile accettare che la persona che amiamo si sia ammalata). 

 

Il familiare può avere la sensazione di non sapere cosa fare, di non riuscire a stare vicino “nel modo giusto” e può avere il timore di agire in modo inappropriato.

 

Anche per il familiare quindi si rivela spesso utile richiedere un sostegno psicologico per affrontare la crisi legata alla malattia, per comprendere ed esprimere i propri sentimenti, le proprie paure ed ansie. Gli atteggiamenti dei familiari e le loro reazioni emotive sono di fondamentale importanza per chi si è ammalato e ritiene che la propria malattia possa essere causa di malessere per le persone che ama. Con un sostegno psicologico il familiare può essere aiutato ad affrontare bisogni e difficoltà personali che la malattia dell’altro ha reso più forti, può essere aiutato a stare accanto alla persona che si è ammalata, può essere aiutato nel delicato ruolo di sostegno per gli altri componenti del nucleo familiare (i figli, i genitori, i fratelli…), può essere in parte sollevato dalla stanchezza quando questa si fa più intensa.

 

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LA COMUNICAZIONE AI FIGLI

 

Un falso mito da sfatare è che i bambini in quanto piccoli non siano in grado di comprendere quando il padre o la madre sono malati di tumore. L’esigenza dei genitori è quella di tutelarli naturalmente, quindi a fin di bene avviene che spesso i bambini indipendentemente dall’età vengono tenuti all’oscuro di tutto anche quando ci sono dei segnali evidenti. 

 

 

È importante sapere che i bambini possono non conoscere i dettagli tecnici della malattia, peraltro come i genitori, ma sono assolutamente in grado di percepire che la mamma o il papà sono malati: non metterli al corrente pur a fin di bene, creando un tabù del silenzio, a fronte oltretutto di inevitabili cambiamenti nella quotidianità imposti dalla malattia e dalle cure, significa enfatizzare le paure e le ansie dei bambini che, percependo di non poterne parlare, visualizzano scenari anche più catastrofici di quelli realmente in essere. 

Anche bambini molto piccoli, di 3 o 4 anni, riescono a percepire che c’è qualcosa che non va, anche se non sono in grado di identificare cosa. I bambini intuiscono, percepiscono i cambiamenti organizzativi ed emozionali della famiglia e vedono: hanno sotto gli occhi i cambiamenti fisici della mamma o del papà in terapia. Il silenzio può stimolare il cosiddetto pensiero magico dell’infanzia: il bambino potrebbe ritenersi la causa dello stato del papà o della mamma, sentirsi in colpa. Infine, non capire e non ricevere risposte, o riceverne di frettolose e vaghe e imbarazzate, li fa sentire soli. 

 

In generale, quindi, la miglior scelta è quella della sincerità, naturalmente tenendo conto dell’età, della personalità e dello sviluppo emotivo del bambino, senza mai appesantirlo con dettagli complicati e inutili. È importante scegliere il momento giusto: quando si è relativamente sereni e si ha la certezza di non cedere alla disperazione.

 

Può essere utile parlare con l’altro genitore presente, concordando prima con lui o con lei le parole e le espressioni da usare. Bisogna inoltre essere disponibili a tornare sull’argomento. Spesso i bambini e anche i ragazzi ci ripensano, ritornano sulle cose anche dopo giorni, quindi il canale comunicativo non va mai chiuso. 

 

 

Rabbia, problemi di scuola, difficoltà di relazioni coi compagni, episodi di pipì a letto sono tutte reazioni possibili, ma i bambini hanno bisogno gli venga spiegato cosa sta succedendo perché loro sentono che qualcosa è cambiato. Nei limiti del possibile è poi consigliabile provare a mantenere una certa continuità con le attività che il bambino ha sempre svolto (sport, incontri coi compagni, attività, ecc.).

 

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IL RIENTRO ALLA “NORMALITÀ”

 

Un altro momento delicato in cui è frequente sentire il bisogno di chiedere aiuto ad un esperto è la fase per così dire della ripresa della normalità. Una volta superati momenti difficili come la diagnosi, gli interventi e/o i trattamenti chemioterapici, una volta superati quindi gli aspetti della malattia che più spaventano e frenano dal punto di vista fisico, ci si può rendere conto che proprio quando finalmente guariti, riprendere la vita di tutti i giorni sembra insormontabile. Ritornare a lavoro, riprendere gli abituali ritmi di vita quotidiana, incontrare conoscenti e colleghi, immergersi nelle problematiche lavorative per esempio, sono tutte attività che dopo la malattia è possibile percepire come ostacoli troppo duri da superare. 

 

Dopo la scoperta della malattia c’è fretta di agire: fare mille controlli, parlare con molti medici, intervenire con terapie urgenti, non c’è nemmeno il tempo di pensare. Così molto spesso in questa fase si lasciano da parte le emozioni, le sensazioni, le riflessioni su quello che si sta vivendo e ci si concentra solo su quello che si deve fare o che i medici e gli infermieri dicono di fare. Così può capitare che, proprio quando è superata l’iniziale fase di urgenza, quando le decisioni da prendere cominciano a diminuire, il tempo a rallentare e i mesi sono scanditi dai controlli, proprio allora può capitare di sentirsi sopraffatti dalle proprie emozioni, dall’ansia, dalle paure che fino a quel momento si pensava fossero un problema degli altri. 

 

Questo avviene perché spesso nella fase di cura la persona investe tutte le proprie energie e attenzioni per guarire a livello fisico, tralasciando (negando) le ferite pur presenti nella mente a livello psicologico. Accade così che mentre durante le terapie si percepisce di avere un ruolo attivo nel curarsi, sottoponendosi ai trattamenti per quanto difficili e faticosi, nella fase successiva di attesa passiva dei periodici controlli, si abbia più tempo e spazio per pensare e per entrare in contatto col proprio mondo interno, sollecitando un disagio emotivo anche prima presente, ma inascoltato. 

È comprensibile che in questi momenti si possa far fatica a chiedere aiuto: ci si domanda come mai, proprio nel momento in cui magari i medici dicono che l’operazione è andata bene, o che i controlli sono favorevoli, o addirittura che è tutto risolto, proprio quando gli altri ti considerano guarito, senti di stare male e la paura è sempre presente, accanto a te tutto il giorno. È proprio in questi momenti che sia il paziente sia chi è a lui vicino può stupirsi di queste difficoltà (“proprio ora che sono guarito mi sento in ansia”, “durante le terapie mi sentivo sufficientemente bene, ora che ho finito mi sento triste e arrabbiato”). È possibile sentire il peso delle assenze fatte o sentirsi sotto osservazione da parte dei colleghi o trattati in modo diverso dal superiore. Usufruire delle agevolazioni che spettano di diritto, può far sentire in colpa e alcuni commenti possono irritare. 

 

Una terapia di sostegno psicologico e la possibilità di creare con il terapeuta uno spazio protetto in cui affrontare anche queste apparenti contraddizioni, può aiutare a superarle e a recuperare un nuovo equilibrio nei tempi e secondo i ritmi che sono necessari. Può aiutare ad affrontare i delicati momenti che si accompagnano ai controlli medici e che costantemente ravvivano il ricordo della malattia e permettono il riaffiorare delle paure a essa legata: una terapia di sostegno può dare a ciascuno la possibilità di creare uno spazio per accogliere queste paure ed anche per elaborarle e superarle efficacemente. Può inoltre aiutare ad affrontare e valutare eventuali limiti dati dalla malattia allo svolgimento della vita, nonché ad affrontare i pregiudizi che talvolta è possibile incontrare negli ambienti di vita familiare, lavorativa, sociale.   

 

“Ricomincio… da me.”

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